Il
20 giugno scorso, dal palco del Family Day a Roma, il pittore e
iniziatore del cammino neocatecumenale Kiko Arguello ha esposto la
sua personale teoria sulla genesi del femminicidio facendo
particolare riferimento alla vicenda di Matthias Schepp1.
La
forza delle sue parole ha dato, nei giorni successivi, un'occasione
di discussione profonda nutrita da incomprensioni, più o meno
strumentali.
Questa
la porzione di discorso contro cui il mondo (prevalentemente non
cattolico) si è rivoltato:
“[...]Ma
se la moglie lo abbandona e se ne va con un’altra donna quest’uomo
può fare una scoperta inimmaginabile, perché questa moglie gli
toglie il fatto di essere amato, e quando si sperimenta il fatto di
non essere amato allora questo richiama l’inferno. Quest’uomo
sente una morte dentro così profonda che il primo moto è
ucciderla”.
La
questione, a mio parere, è piuttosto controversa. In realtà è vero
in buona sostanza che i media si sono concentrati ed hanno attaccato
Arguello estrapolando una frase da un discorso di oltre 10 minuti2
e questo, di per sé non è corretto e soprattutto, non sarebbe stato
necessario.
Il
problema è che quando si critica in maniera scorretta si perde buona
parte di ragione. Titolare decine di articoli “Il femminicidio?
Colpa delle mogli che non amano più i mariti”, non solo è
scorretto, ma da anche modo di attaccare la modalità mettendo in
ombra un discorso di tale gravità. Per questo mi chiedo se non
sarebbe stato più efficace criticare per intero una teoria che,
comunque, in qualunque disciplina la si faccia rientrare, fa acqua da
tutte le parti.
Ma
torniamo al discorso. In buona sostanza Arguello sostiene che senza
la fede l'uomo non ha uno scopo nella vita e finisce per trovarlo
solo nell'amore della propria moglie per cui, se lei lo lascia, egli
sente negata la sua stessa esistenza e dunque uccide lei o i propri
figli per farle provare lo stesso genere di dolore o “inferno”
per dirlo con le parole dell'ecumenico spagnolo.
E'
quindi fuori da ogni dubbio che in nessun punto del suo discorso
Arguello giustifichi il femminicidio o ne attribuisca la
responsabilità alla donna, ma è anche vero che la ricerca del
motivo scatenante di tanta efferatezza appare, ad occhi
professionisti, un po' troppo semplicistico. A ognuno il suo
mestiere!
L'indagine
psicologica sulle motivazioni che sottendono il fenomeno del
femminicidio, non è cosa da pittori perché poi si rischia quello
che è successo e cioè sollevare vespai per mancanza di competenze.
E' pur vero che in una società democratica ognuno può esprimere la
propria opinione, ma è buona norma avere adeguate competenze prima
di salire su un palco a proclamare verità assolute.
Da
un punto di vista sociologico e psicologico, in generale la
causa della violenza viene attribuita alla tendenza maschile a non
considerare le donne come individui indipendenti e con il diritto di
autodeterminarsi, ma piuttosto come cosa propria.
A maggior ragione, l’aumento esponenziale nella nostra società di
casi di violenza e femminicidio viene fatto risalire ad un mutamento
dell’identità
femminile,
che va verso l’emancipazione e la libertà, e viene quindi vissuta
dagli uomini come una minaccia al proprio potere o al proprio diritto
al dominio sessista.
Ogni
forma di violenza nasce da una profonda fragilità e da
un'umiliazione ritenuta inaccettabile che si cerca di negare
picchiando. Massimo Recalcati, psicoanalista, su Repubbica scrive:
“E' chiaro per lo
psicoanalista che questa violenza - anche quando viene esercitata da
uomini potenti - non esprime solo l' arroganza dei forti nei
confronti dei deboli, ma è generata da una angoscia profonda, da un
vero e proprio terrore verso ciò che non si può governare, verso
quel limite insuperabile che sempre una donna rappresenta per un
uomo.”3
Passando
quindi ad una lettura psicoanalitica, si può riconoscere, in molti
casi di violenza maschile, la vendetta nei confronti della dipendenza
infantile dalla madre per l’esclusione edipica e per le ferite
narcisistiche. A questo proposito, Stefano Bolognini psicoanalista,
presidente di IPA (International Psychoanalytical Association),
distingue due diverse tipologie di “delitto edipico”: da una
parte i delitti passionali in cui l’uomo uccide il rivale,
prevalentemente legati ad un livello fortemente edipico di odio
contro l’equivalente paterno in una dimensione triadica; dall'altra
i casi in cui l’uccisore sopprime la moglie o fidanzata dove si
osserva un livello ancora più regressivo, nel quale il soggetto vive
ancora in una dimensione fortemente diadica di cui non può tollerare
la smentita e l’interruzione. In quest'ultimo caso il terzo quasi
non c’è, se non come occasionale evidenziatore della
inaffidabilità dell’oggetto di base (la madre diadica), vero ed
unico oggetto di tutti i movimenti emotivi nel campo.
Bolognini
continua poi affermando “La regressione massiccia, la
smentita della dipendenza e il bisogno di controllare l’oggetto
creano spesso forme di violenza di cui il soggetto non coglie
l’aspetto infantile estremo: l’espressione della supremazia
fisica anzi serve a rassicurarlo circa la propria superiorità
rispetto all’oggetto dal quale è invece così dipendente”.4
Ad
un certo punto Arguello sostiene che “I sociologi non
sono cristiani e non conoscono l’antropologia cristiana. Il
problema è che non possiamo vivere senza essere amati prima dalla
nostra famiglia, poi dagli amici a scuola, poi dalla fidanzata e
infine da nostra moglie”.
Sicuramente
l'antropologia ecumenica e l'antropologia propriamente detta sono due
scienze molto diverse tra loro, che divergono in più di un concetto,
tuttavia la teoria di Arguello mi pare talmente originale da non
trovare riscontro nella scienza che egli stesso invoca.
Potrebbe
solo trattarsi di una controversia terminologica poiché
probabilmente, quello che l'antropologia cristiana chiama mancanza di
fede tale da portare all'omicidio in caso di perdita dell'amore, in
psicologia si chiama più semplicemente disturbo di personalità.
A
questo proposito, dobbiamo tenere in considerazione che Edwards
et al (2003) hanno dimostrato la presenza di una percentuale più
alta di disturbi antisociali e borderline nella popolazione dei
violenti verso le donne.
1Nel
2011 Matthias Schepp, dopo un sofferto divorzio, rapisce e poi
uccide le due figlie per togliersi infine la vita
2https://www.youtube.com/watch?v=f-iBJPHA78A
3Massimo
Recalcati su Repubblica, 5 maggio 2012
4http://www.spiweb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=3017:uno-sguardo-psicoanalitico-alla-violenza-contro-le-donne&catid=563&Itemid=445
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