giovedì 10 novembre 2011

Sexual addiction


Ecco un altro dei termini molto usati negli ultimi mesi il cui concetto merita, a mio parere, un po' di chiarezza. La sexual addiction (in italiano ipersessualità) è considerata un disturbo psicologico e comportamentale che non viene però classificato nel DSM IV (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) e nemmeno nella nuovissima edizione. La ragione di questa carenza scientifica è da ricercare nel fatto che, all'interno della comunità medica e specialistica della sessuologia, esistono numerose controversie sulla definizione e descrizione del fenomeno. In linea di massima la definizione più accreditata descrive la sexual addiction come un'effettiva dipendenza con conseguente abuso, al pari di alcolismo e tossicodipendenza, in cui l'abuso dell'oggetto di dipendenza viene utilizzato per contenere e gestire lo stress o i disturbi di personalità. Come ogni forma di dipendenza quindi, anche la sexual addiction, tende a procurare assuefazione pertanto non è infrequente che per poter soddisfare la propria pulsione il soggetto senta l'esigenza di intensificare la ricerca di comportamenti sessuali sempre più rischiosi fino a sfociare in quei disturbi della sfera sessuale già classificati e conosciuti. Seppure risulti difficoltoso a causa della mancanza di chiari elementi diagnostici, da una ricerca recente pare che i soggetti dipendenti da sesso in Italia siano stimati essere il 6% della popolazione (Avenia, 2003, 2004).
Per distinguere il disturbo dell'ipersessualità (o dipendenza dal sesso) da una normale attività sessuale intensa, sono stati elaborati esami e test sessuali specifici come il SAST (Sexual Addiction Screaning) e il SESAMO (Sexrelation Evaluation Schedule Assessment Monitoring) .
La crescita esponenziale del fenomeno è stata di certo agevolata dalla diffusione di internet e delle chat erotiche prevalentemente a causa di due importanti caratteristiche proprie delle chat stesse: l'evasione dalla realtà e l'immediata accessibilità. Il mondo virtuale è una realtà parallela in cui si può interagire con gli altri senza essere riconosciuti, dove si può esprimere la propria personalità liberamente senza paura di essere giudicati. In chat si assume spesso un'identità fittizia, si possono giocare ruoli inventati e dare libero sfogo alle proprie fantasie.
Nell'era di internet, dove la sessualità è pubblicizzata quasi in ogni pagina, sembra decisamente più semplice mettere in pratica qualunque perversione sessuale; da una parte di certo questo ha fatto crollare molti dei tabù propri del secolo scorso, ma dall'altra si rischia di perdere di vista il confine tra libertà sessuale e psicopatologia. Non dimentichiamo che l’autostima viene potenziata, nella dipendenza da sesso, più dal numero di rapporti avuti in una settimana o in una notte, che dalla qualità dei rapporti personali o dalla rete di relazioni sociali.
Anche se generalmente le relazioni a sfondo sessuale non prevedono alcun coinvolgimento affettivo, spesso comportano importanti conseguenze: dall'abbandono da parte del partner “ufficiale”, al deteriorarsi dei normali rapporti affettivi fino alla compromissione delle altre attività quotidiane e sociali in maniera proporzionale alla gravità e al tipo di dipendenza.
Tra le dirette conseguenze della sexual addiction possiamo ricordare quindi: stress fisico, deterioramento delle relazioni sociali diminuzione della memoria a breve termine, diminuzione del rendimento fisico, stanchezza cronica, alterazione del sonno.
Come per buona parte dei disturbi della sfera sessuale, anche per la sexual addiction l'eziologia è sconosciuta, tuttavia è importante sottolineare che la dipendenza sessuale in sé è solo un sintomo di un problema molto più profondo. Tutte le dipendenze sono reazioni a vuoti nella vita di una persona che prendono forma durante l'infanzia, quando i bisogni di amore sano e sicurezza non sono soddisfatti. La dipendenza dal sesso è un sottoprodotto della solitudine, che va a sostituire il dolore e il bisogno di essere amati e accettati.
In molti degli articoli scientifici prodotti negli ultimi mesi si ritiene che la causa di questi comportamenti abbia origine in traumi o disturbi di tipo psichico e che nella maggior parte dei casi sia legata ad abusi sessuali subiti nell'infanzia o nell'adolescenza.
Personalmente sono più propensa a credere che le radici del disturbo non debbano essere ricercate in precedenti traumi sessuali, ma piuttosto in importanti traumi affettivi infantili e per questa ragione sarebbe forse più corretto inserire la sexual addiction nei “disturbi della sfera affettiva”. In altre parole ritengo che alla base della sexual addiction ci sia un rifiuto (assimilabile ad una rimozione) del rapporto affettivo totale ed esclusivo che per qualche ragione spaventa. Vedo con più probabilità alle spalle un vissuto abbandonico profondo accompagnato da un dolore dal quale si impara a stare alla larga: con più partner sessuali si scongiura il pericolo di coinvolgersi completamente in un'unica relazione.
Formalmente il concetto di fondo non cambia, ma l'approccio psicoterapeutico di certo si.
Anche in Italia stanno sorgendo le prime cliniche specializzate per il disturbo da ipersessualità, dove ci si concentra primariamente sul tentativo di ristabilire una sana sessualità attraverso percorsi di privazione e riabilitazione.
Per tutte le ragioni che ho elencato sopra ritengo che l'obiettivo terapeutico dovrebbe invece essere quello di ristabilire una sana affettività demolendo i timori ed affrontando i traumi che ne stanno alla base per permettere al sex addict di acquisire fiducia in sé stesso ed evitare tutti quei comportamenti volti unicamente a boicottare un'idea di relazione stabile.

sabato 20 agosto 2011

La sindrome da burnout

Secondo la nota definizione di Cary Cherniss, il Burn-out – termine traducibile in italiano con “bruciato”, “esaurito”- è un processo nel quale un professionista precedentemente impegnato si disimpegna dal proprio lavoro in risposta allo stress e alla tensione sperimentata sul lavoro.
Generalmente si riferisce alle cosiddette helping professions, cioè a quelle professioni caratterizzate da una forte componente emozionale come nell'ambito psicologico, medico, o nelle attività di tipo socio-assistenziali ed educative. Queste figure sono caricate da una duplice fonte di stress: il loro stress personale e quello della persona aiutata ed hanno pertanto maggiori probabilità di sviluppare un lento processo di "logoramento" o "decadenza" psicofisica.

Tra gli aspetti epidemiologici della sindrome del Burnout descritti nella letteratura, non sembra esistere un accordo unanime tra i differenti autori, sebbene si riscontri un determinato livello di coincidenza per alcune variabili quali età, sesso, turnazione lavorativa e sovraccarico lavorativo.
  • Età: pare esista un periodo di sensibilizzazione in quanto, durante i primi anni di carriera professionale, il soggetto sarebbe maggiormente vulnerabile.
  • Sesso: le donne, rispetto agli uomini,risultano più vulnerabili. Ciò è dovuto a vari motivi, come il doppio carico di lavoro (professionale e familiare) a cui sono sottoposte, e l'espletamento di determinate specialità professionali che prolungherebbero il ruolo di donna.
  • Turnazione Lavorativa: la turnazione e l'orario lavorativo possono favorire l’insorgenza della sindrome.
  • Sovraccarico Lavorativo: è sicura invece la relazione tra Burnout e sovraccarico lavorativo nei professionisti assistenziali, in quanto questo fattore produrrebbe una diminuzione, sia qualitativa che quantitativa delle prestazioni offerte da questi lavoratori.
Trattandosi fondamentalmente di una condizione di stress protratto in ambito lavorativo, le cause dirette che possono determinare una condizione di disagio in ambito lavorativo riguardano prevalentemente gli aspetti organizzativi e tra questi soprattutto le carenze dei servizi, la cattiva comunicazione tra il personale, il sovraccarico di lavoro, gli obiettivi mal definiti, l'eccessiva burocratizzazione e la mancanza di una vera organizzazione in èquipe, per discutere e valutare il lavoro.
Nello studio delle possibili cause del burnout è fondamentale includere l'analisi del contesto organizzativo nel quale l'individuo opera. La struttura e il funzionamento del contesto sociale influenzano il modo in cui le persone interagiscono tra loro e il modo di lavorare: quando l'ambiente lavorativo non riconosce l'aspetto umano del lavoro, il rischio di burnout cresce alimentando la sensazione di fallimento

Sul piano clinico la sindrome presenta una lunga serie di segni e sintomi variamente associati tra loro: alta resistenza a recarsi al lavoro, sensazione di fallimento, rabbia, senso di colpa e scoraggiamento, indifferenza, isolamento, senso di stanchezza, perdita di sentimenti positivi verso gli altri, difficoltà di concentrazione e di ascolto, problemi di insonnia, rigidità di pensiero e resistenza al cambiamento.
Nei casi più gravi si possono manifestare importanti sintomi depressivi fino a costringere all'allontanamento dal lavoro stesso.
Negli operatori sanitari, la sindrome si manifesta generalmente seguendo quattro fasi:
  1. Fase preparatoria: caratterizzata dall'entusiasmo idealistico che spinge il soggetto a scegliere un lavoro di tipo assistenziale.
  2. Fase di stagnazione: il soggetto, sottoposto a carichi di lavoro e di stress eccessivi, inizia a rendersi conto di come le sue aspettative non coincidano con la realtà lavorativa. L'entusiasmo, l'interesse ed il senso di gratificazione legati alla professione iniziano a diminuire.
  3. Fase di frustrazione: caratterizzata da sentimenti di inutilità, di inadeguatezza, di insoddisfazione, uniti alla percezione di essere sfruttato, oberato di lavoro e poco apprezzato.
  4. Fase di apatia: l'interesse e la passione per il proprio lavoro si spengono completamente e all'empatia subentra l'indifferenza, fino ad una vera e propria "morte professionale".
La possibilità di valutare in termini quantitativi il livello di burnout è stato oggetto di svariati studi ed attualmente il test più diffuso è il Maslach burn out Inventory (MBI), che permette di indagare le tre dimensioni principali della sindrome:
l'esaurimento emotivo, cioè la sensazione di essere in continua tensione, la sensazione di depersonalizzazione, ovvero il provare disinteresse nei confronti del proprio paziente e del proprio lavoro e la perdita dell'autostima.

L'intervento, sia in termini di prevenzione che terapeutici, sulla sindrome del burn out, si individua nella presenza di una supervisione che fornisce un adeguato sostegno nel migliorare la qualità della vita all'interno del gruppo; l'obiettivo diventa quello di creare un feed-back significativo sui ruoli e sulle proprie competenze grazie alla definizione degli obiettivi.
A volte si rende necessario organizzare programmi psicoterapeutici individuali per ridurre lo stress, ma un importante metodo per alleviare lo stress lavorativo è quello di organizzare gruppi di supporto per il personale, come ad es. i gruppi Balint, centrati sull'analisi delle dinamiche interpersonali nella relazione medico-paziente, oppure attraverso l'analisi dei vissuti (lettura emotiva) tramite la discussione di casi clinici. Grazie a questo tipo di intervento vi è la possibilità di favorire la collaborazione tra colleghi, aumentare l'autostima e ridurre la tensione che frequentemente si determina sul lavoro.

lunedì 11 luglio 2011

La rabbia

Sopracciglia abbassate e ravvicinate con rughe verticali al centro, palpebre inferiori e superiori tese, labbra fortemente serrate con gli angoli dritti oppure leggermente abbassati e narici dilatate. Accelerazione del battito cardiaco, aumento della tensione muscolare e della sudorazione, aumento della pressione arteriosa e irrorazione dei vasi sanguigni periferici.
Non vi sono dubbi che la rabbia (o meglio ira) sia un'emozione tipica, innata e primordiale: insieme alla gioia ed al dolore è tra le emozioni più precoci tanto da potersi osservare sia in bambini molto piccoli che in specie animali diverse, ma al contrario di gioia e dolore, spesso la rabbia viene considerata socialmente disdicevole ed inaccettabile e quindi rimossa o inibita.
Eppure la rabbia ha una funzione adattiva, considerata fondamentale da tutte le teorie psicologiche come reazione alla frustrazione e alla costrizione sia fisica che psicologica. Trae origine dall'istinto di difesa, come un meccanismo di protezione che ci segnala che c'è qualcosa che non va.
Le numerose ricerche compiute sui comportamenti di specie diverse dall'uomo hanno dimostrato che l'ira e le conseguenti manifestazioni aggressive, sono determinate da motivi direttamente o indirettamente legati alla sopravvivenza dell'individuo e della specie. Negli uomini in particolare lo sviluppo della rabbia pare essere strettamente connesso con l'intenzionalità, o meglio, con la percezione di intenzionalità che si attribuisce all'altro di ferire: è più facile arrabbiarsi quando qualcosa o qualcuno si oppone alla realizzazione di un nostro bisogno se ne viene percepita la volontarietà.
Uno degli aspetti più importanti da comprendere sulla rabbia e che, anche se viene spesso considerata un’emozione negativa e da evitare, in realtà essa diviene negativa, e soprattutto distruttiva, quando non viene riconosciuta ed espressa al momento in cui emerge.
L'accumulo di rabbia inespressa non può essere infinito, trattandosi di energia in eccesso, ad un certo punto non saremo più in grado di contenerla e in qualche modo saremo costretti a farla uscire rischiando di trovarci davanti ad un'emozione troppo intensa per essere controllata.
Per queste ragioni è importante saper esprimere la rabbia quando ancora siamo in grado di farlo. Non appena sentiamo un moto d'ira dovremmo fermarci e sforzarci di considerarne origine e motivazione, come suggerisce il Dott. Mastronardi “In realtà spesso la rabbia viene scatenata dalle nostre interpretazioni delle azioni dell'altro, dai significati simbolici che vi attribuiamo”. Esprimere la rabbia nel momento i cui compare, ci permette di avere ancora un potere logico sull'emozione e di riuscire quindi a governarla.
Se viene repressa, la rabbia si ritorce contro noi stessi con attacchi depressivi e quando la mente non riesce più a gestire i conflitti, il corpo ne soffre: numerose affezioni psicosomatiche come mal di schiena, ulcere, psoriasi possono essere legate al soffocamento della collera. E’ fondamentale dunque, per la nostra salute psico-fisica, imparare ad esprimere la collera in maniera costruttiva ed appropriata.
Il segreto, ancora una volta, è quindi nella misura. Scrive Aristotele :“Arrabbiarsi è facile, ne sono tutti capaci, ma non è assolutamente facile, e soprattutto non è da tutti arrabbiarsi con la persona giusta, nella misura giusta, nel modo giusto, nel momento giusto e per la giusta causa”.
Oltre a fungere da campanello d'allarme in situazioni di pericolo, la rabbia ha anche l'importante funzione di proteggerci dal dolore; se riusciamo a mettere da parte la rabbia, di solito scopriamo che sotto si nasconde un qualche tipo di dolore, ed è qui che di solito sarebbe utile lavorare. Se veniamo feriti dall'altro, ad esempio, tendiamo a rispondere con ira, risentimento e rancore perdendo di vista il dolore che tale ferita ci ha provocato. Ogni volta che ci arrabbiamo ci stiamo soltanto proteggendo, e spesso stiamo rifiutando un insegnamento, incapsulato dentro il dolore che rifiutiamo di vedere. È invece molto utile fermarsi e cercare di ascoltare la rabbia, con l'obiettivo di riconoscerne il dolore sottostante e lavorare su di esso. Le emozioni devono essere comprese ed elaborate prima di poter essere riposte in un archivio e perché se ne possa spegnere la fiamma.

martedì 17 maggio 2011

Lutto e Separazione

"Un lutto di cui non si parla è un lutto che non guarisce" (antico proverbio spagnolo)

Anche se può sembrare riduttivo, la parola “lutto”, nel suo significato più profondo (dal latino luctus = pianto), rimanda alla sofferenza derivante dalla perdita di una persona significativa per la propria vita sia essa data da separazione o da morte. Non si può perdere qualcuno che si ama senza divenire vulnerabili e provare dolore; è comunque una ferita e come tale deve essere curata in un processo di cicatrizzazione che richiede tempo e fatica; se questo non avviene il dolore si cronicizza o resta irrisolto.
Il processo di lutto è lento, progressivo, come scrive Freud in “Lutto e Melanconia”, un vero e proprio lavoro con fasi alterne, che permette di disinvestire il passato per ritornare alla realtà attuale. Secondo la teoria freudiana, la perdita di una persona amata comporta un disinvestimento di energia libidica nei confronti dell'altro con la conseguente e necessaria ricanalizzazione di tale energia. Per semplificare, la perdita restituisce a chi resta un fardello carico di emozioni che ci si trova costretti a gestire e reinvestire in maniera costruttiva. Come nella costruzione di una casa, il processo di investimento sull'altro è lento e graduale, la relazione si arricchisce quotidianamente, mentre la perdita è immediata e violenta; il crollo ci restituisce una mole di macerie che siamo costretti a raccogliere ed è proprio per questa ragione che è così difficile incanalare l'ondata emotiva in maniera sana, ridando forma alla polvere.
Il processo di lutto può essere paragonato a quello della potatura di un albero che lo libera dai rami morti per dargli nuova linfa e forza di germogliare. Apparentemente l’albero è spogliato ed impoverito ma è proprio la perdita di parti di sé danneggiate, che permette la nuova fioritura.
Dopo Freud, gli autori che si sono occupati dell'argomento, hanno definito alcune fasi che è necessario attraversare al fine di rielaborare correttamente una perdita. Per sintetizzare prenderemo in esame i cinque momenti salienti condivisi più o meno da tutti:
  • Negazione. Si tratta di un meccanismo di difesa che ci permette di attenuare l’intensa fase iniziale del dolore, ma deve scomparire entro pochi giorni.
  • Rabbia. Quando gli effetti mascheranti della negazione della realtà cominciano a svanire, riappare il dolore. Si tratta di un dolore violento e destabilizzante che probabilmente non si è ancora in grado di gestire. Il modo più immediato per esternare una carica emotiva troppo intensa è appunto la rabbia che può essere orientata verso sé stessi, verso la persona persa o verso il destino.
  • Auto recriminazioni. Si incomincia poi una fase in cui si auto recrimina su azioni che si sarebbero potute compiere per evitare o ritardare il lutto.
  • Depressione. La fase depressiva è probabilmente quella che occupa più tempo nell'intero processo di elaborazione, ha caratteristiche analoghe a quelle del disturbo depressivo, ma la durata della sintomatologia consente la diagnosi differenziale.
  • Accettazione. Dopo la fase di depressione, i sintomi depressivi regrediscono e la persona tenta di tornare alla normalità.
Ciò che distingue il dolore normale, così come delineato sopra, da quello anormale, è l’intensità e la durata delle reazioni lungo il tempo. Come abbiamo visto, la rabbia, così come la depressione, sono fasi che fanno parte del processo di elaborazione, ma se si rimane bloccati ad una di esse, l'evoluzione viene interrotta o cristallizzata, per l'impossibilità sostanziale di accettare il significato emotivo della perdita relazionale. In tal caso, quello che è il disagio o il dolore emotivo che accompagna normalmente ogni lutto, può ampliarsi fino ad assumere forme psicopatologiche.
La natura ha provvisto le persone di meccanismi di difesa che permettono di gestire l’angoscia, di affrontare situazioni difficili e controllare le reazioni emotive. Un uso appropriato di questi meccanismi è utile ed efficace, ma se eccessivo, il processo di risoluzione viene ostacolato e solo il progressivo distacco da questi, porterà all’esame di realtà e alla completa elaborazione della perdita che equivale alla possibilità vitale di spostare la libido su nuovi oggetti.
Il processo di rimozione, ad esempio, può essere adattivo nelle prime fasi del lutto, ma se diventa un ostacolo insuperabile e l'accettazione della perdita viene procrastinata all'infinito, il dolore tenderà a cronicizzarsi in una sorta di ruminazione continua che non lascia spazio ad altro.
La cosa più importante da tener presente per reagire ad un lutto in modo sano è prendere coscienza del fatto che una parte di noi sta soffrendo e che si tratta di una sofferenza motivata. Poco importa l'attribuzione di responsabilità, quel che conta è che qualcosa si è rotto, qualcosa su cui si era investito in termini di energia, fiducia e futuro ed è normale provare dolore. E' necessario pertanto rispettare ed accudire questo dolore fino a quando non si sarà attenuato.

domenica 1 maggio 2011

La personalità narcisista


Come si diceva la volta scorsa (http://psicochiacchiere.blogspot.it/2011_04_01_archive.html), spesso, il partner della persona “affettivamente dipendente” soffre a sua volta di qualche tipo di dipendenza o disagio che non lo rende in grado di vivere un amore maturo ed impedisce ad entrambi di realizzarsi all'interno di una vita di coppia. Generalmente sono persone incapaci di esprimere affetto, che ricercano ammirazione e gratificazione incondizionate: caratteristiche peculiari della personalità narcisista. Il carattere narcisista e quello dipendente si attraggono e si ricercano vicendevolmente poiché la realizzazione di bisogni inconsci così complementari rende queste due personalità perfettamente compatibili.
Dal punto di vista psicodiagnostico, se la dipendenza affettiva non è riconosciuta, lo è invece la personalità narcisista, classificata nel DSM IV (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) fra i disturbi di personalità. Con l'intento di non entrare troppo nello specifico campo psichiatrico, cercherò di descrivere il narcisismo come tratto di personalità, prendendo in considerazione le teorie psicodinamiche che ne descrivono cause e conseguenze. Come per la dipendenza affettiva, è necessario premettere che la differenza tra narcisismo sano e narcisismo patologico è molto difficile da cogliere. Il modo migliore per identificare le forme patologiche del narcisismo è osservare la qualità delle relazioni interpersonali: una tragedia che affligge queste persone è la loro incapacità di amare.
Tendenzialmente il narcisista si presenta come un soggetto affascinante, imprevedibile e seduttivo soprattutto nei primi momenti, salvo poi palesarsi in un altalenare di messaggi contraddittori. L'attività professionale, soprattutto se brillante e autonoma, costituisce l’aspetto predominante della sua vita perché gli dà la possibilità di dimostrare quanto vale. Si aspettano di ricevere approvazioni e lodi per le proprie qualità superiori, rimanendo sconcertati quando non ottengono i riconoscimenti che pensano di meritare e presentando spesso la tendenza a rimuginare circa tale mancanza da parte dell’altro. Hanno una forte tendenza ad usare gli altri per i propri scopi e quando non ottengono ammirazione, mettono in atto giochi di potere per sentirsi più forti seducendo oppure denigrando e accusando chi non li ammira o non la pensa come loro. Allo stesso modo, se si sentono troppo “legati” o se percepiscono l'altro troppo forte, si vendicano colpevolizzandolo e attaccandolo apertamente oppure richiudendosi nel silenzio e nella passività per ristabilire la sua supremazia di potere. Il narciso vuole piacere alla gente, essere ammirato e gratificato, ha una grande capacità di cogliere i punti deboli degli altri e di farli notare.
A causa della radicale inconsapevolezza di sé e dei propri limiti, il narcisista sceglie, senza saperlo, ciò che è male per sé, prende strade sbagliate, considerandole giuste, fa scelte inopportune, credendo di fare ciò che è utile a sé, e per questa grande illusorietà si trova spesso a raccogliere i frutti di una serie di esperienze fallimentari.
I principali studi psicodinamici suggeriscono che, nello sviluppo del disturbo narcisistico di personalità, occupa un posto di primaria importanza l’interazione che si sviluppa tra il genitore ed il bambino; in modo particolare si tratta spesso di relazioni primarie caratterizzate da un'indisponibilità dell'altro a rispondere al bisogno di cure, dunque dall’aspettativa del bambino di essere rifiutato. Tale condizione genera una tendenza ad organizzare la propria esistenza facendo a meno dell’amore degli altri, contando solo su se stesso e mirando all’autosufficienza assoluta.
A partire da tali premesse, è chiaro che per evitare il rifiuto, l'individuo impara a rinunciare a qualsiasi rapporto più profondo svalorizzandolo e contemporaneamente a dissociare gli aspetti del sé percepiti come negativi valorizzando i comportamenti che evitano il rifiuto, tra i quali, all'estremo, la negazione del bisogno.
Tale meccanismo di difesa è descritto dallo stesso Freud come “scissione dell'Io”: in seguito ad un profonda svalutazione del sé, il sé si difende scindendo l’Io in due parti, da una parte un io piccolissimo in cui vengono racchiuse tutte le sensazioni e i vissuti negativi, dall’altra un Io grandissimo, ideale, investito di poteri, competenze sociali e professionali eccezionali, senza limiti, cui tutto è concesso e dovuto. Si sviluppa così una personalità che da una parte ha un “Io Sociale” smisurato, che ha grandi capacità lavorative e professionali ed in grado di realizzare grandi progetti, e dall’altra parte ha un “Io Intimo” piccolissimo, fragile, pieno di paura ed insicurezze che è incapace di amare profondamente e di legarsi stabilmente.
In questa ottica “l’altro” non esiste in quanto altro da sé, ma ha la funzione di specchio in cui il soggetto narcisista può rispecchiare la sua immagine ricevendone conferma della propria “bellezza” e del proprio valore. Pertanto fin quando l’altro rimanda al soggetto narcisista un’immagine positiva ha motivo di esistere, ma nel momento in cui questa immagine comincia a diventare negativa allora “l’altro”, lo specchio, non ha più motivo di esistere e può essere buttato via.
A seconda della gravità e dell’intensità dei vissuti negativi che il narcisista ha sperimentato nella sua prima infanzia ritroviamo una scala che va dal puro narcisismo patologico, ad un narcisismo con forti tratti borderline e quindi con parti dell’io e del sé frantumate, alle psicopatie e sociopatie.

lunedì 4 aprile 2011

LA DIPENDENZA AFFETTIVA

Prima di addentrarci in questo delicato argomento, è d'obbligo premettere che un'adeguata quota di dipendenza è auspicabile e fondamentale in ogni rapporto di coppia: il bisogno di appoggio, conferme e supporto fa parte di ogni essere umano poiché permette il mantenimento di un adeguato livello di autostima.
Si può parlare di dipendenza affettiva solo nel momento in cui questo bisogno diventa patologico e raggiunge reazioni estreme dovute alla convinzione che per essere amati dall'altro sia necessario annullare se stessi accettando e giustificando qualunque gesto.
Possiamo accomunare la dipendenza affettiva ad una qualsiasi altra forma di dipendenza, poiché viene alimentata dalle medesime caratteristiche: dalla perdita del controllo alla conseguente sensazione di frustrazione ed impotenza fino all'abitudine che rafforza il comportamento patologico.
Alla base di tutto ciò c'è un profondo senso di inadeguatezza che porta a pensare che solo occupandosi esclusivamente dell'altro ci si possa garantire un rapporto stabile e duraturo ed essere degni del suo amore, in quella che si può definire un'abitudine a soffrire; si è per questo portati a giustificare i tradimenti del partner, la sua indifferenza ed aggressività addossandosene le responsabilità nel non essere sufficientemente amabili.
La conseguenza inevitabile è quella di mettere da parte le proprie necessità mascherando la rabbia dietro sensi di colpa uniti ad un profondo timore dell'abbandono. La relazione diventa quindi autodistruttiva e devastante, ma non si riesce ad uscirne nonostante arrivi a rappresentare un dolore costante che altera sia la qualità di vita che le capacità relazionali portando, in molti casi, gravi problematiche fisiche e psicologiche.
La dipendenza affettiva solitamente si manifesta come una modalità comportamentale che porta la persona dipendente a ricercare inconsciamente un partner che possiede già tutte quelle caratteristiche che la porteranno a soffrire, in un susseguirsi di relazioni basate sullo stesso modello. Freud definisce questo atteggiamento “coazione a ripetere”, cioè un processo che conduce il soggetto a riproporre automaticamente dinamiche, comportamenti e situazioni negative del proprio passato, in maniera del tutto inconsapevole, senza avere quindi la capacità di un cambiamento per il futuro. Accade a tutti e fa parte del modo normale di funzionamento della mente, come se la persona avesse imparato a recitare solo e sempre lo stesso copione: per cambiare bisogna arricchirne le trame ed i personaggi.
Di solito le personalità dipendenti si innamorano di persone già impegnate, tossicodipendenti, alcolisti e si ritrovano vittime di violenze fisiche o psicologiche lasciandosi spesso maltrattare pur di sentirsi importanti e sopportando qualsiasi mancanza di rispetto da parte dell'altro purché non si allontani.
Le radici della dipendenza affettiva, secondo Robin Norwood vanno ricercate nei vissuti infantili e nella qualità delle relazioni familiari: si tratta solitamente di famiglie in cui i bisogni affettivi non vengono riconosciuti o trascurati portando la persona dipendente a costruirsi un'immagine di Sé come di persona inadeguata, indegna di essere amata.
Quando il bambino, nelle prime fasi di attaccamento, percepisce che non sempre le sue richieste d'aiuto trovano risposte, tenderà a fondare la sua identità sulle risposte positive disconoscendo gli altri aspetti del sé, con la conseguente strutturazione di un'identità instabile che porterà inevitabilmente a stati d'ansia ed angoscia di separazione.
Ciò che accomuna l'infanzia di chi soffre di dipendenza affettiva è comunque una situazione di carenza affettiva che da adulti si cerca di colmare e compensare con atteggiamenti iperprotettivi e controllanti nei confronti del partner, come se un livello di estrema tolleranza li rendesse immuni da un possibile abbandono.
Nella maggior parte dei casi è necessaria una lunga psicoterapia per poter affrontare la dipendenza affettiva ed imparare ad amare in maniera sana e costruttiva, ma personalmente e professionalmente continuo a chiedermi perché sia così semplice per la persona dipendente trovare il “soggetto adatto” con il quale innescare questo perverso meccanismo di autodistruzione. Se la personalità dipendente ricerca inconsciamente un particolare tipo di partner, evidentemente c'è qualche tipologia psichica che, altrettanto inconsciamente, ricerca la personalità dipendente. Essendo convinta che ci sia un legame tra le due modalità relazionali, la prossima volta mi dedicherò alla personalità narcisista...

sabato 12 marzo 2011

Vittimologia: lo studio della vittima

La vittimologia fa il suo esordio come scienza autonoma nel 1948 in seguito ad uno studio di Hans Van Hentig sul tema della vittima, ma solo verso la fine degli anni '50 emergono i primi importanti studi con l'obiettivo di combattere la criminalità attraverso una più profonda conoscenza della vittima.
Possiamo quindi definire la vittimologia come una disciplina volta a studiare le caratteristiche personali della vittima, la relazione che ha avuto con il proprio aggressore e nel caso di vittima sopravvissuta, le conseguenze fisiche, psicologiche e sociali.
A livello giuridico internazionale, solo nel 1985 è stato adottato dall'ONU la 'Dichiarazione dei principi di base di giustizia per le vittime del crimine e dell'abuso di potere' da risoluzione 40/34 dell'assemblea generale del 29 novembre 1985. Prima di questo momento i diritti della vittima erano solo sottintesi, tutelati dalla giustizia che colpiva il crimine concentrandosi sul reo, come se il compiersi della giustizia potesse cancellare le tracce della vittima.
Attualmente gli scopi della vittimologia dal punto di vista psicologico riguardano prevalentemente aspetti diagnostici e preventivi con l'obiettivo di ottenere informazioni utili a rispondere alle problematiche emergenti ed entrare in possesso degli strumenti che permettono di prevenire reati simili.
L'analisi della vittima, come già anticipato, deve essere svolta a 360° al fine di evidenziare i possibili fattori che portano un particolare soggetto a divenire vittima di un crimine. Gli elementi che si devono tenere in considerazione possono essere di natura fisica, psichica o sociale e più in particolare comprendono il sesso, l'età, la presenza di disabilità, l'insufficienza mentale, le psicopatologie e non di meno le condizioni ambientali come il luogo di residenza o le strade che si percorrono.
La classificazione classica delle vittime le vede divise in due grandi gruppi: vittime accidentali e vittime selezionate. Per vittima accidentale/indiscriminata si intende un soggetto che non ha alcun legame con il suo aggressore ed occupa la grande maggioranza degli episodi criminali, può comprendere passanti, vittime di borseggio, vittime di attentati terroristici ecc...
Le vittime selezionate, al contrario, sono quelle prescelte dal delinquente per il ruolo dalle stesse rivestito, per la loro posizione economica o per altre circostanze oggettive favorevoli quel particolare delitto. Di questa macro categoria fanno parte anche le vittime simboliche (colpite come rappresentanti di un gruppo più ampio di persone) e le vittime trasversali (coinvolte in stretti vincoli con la persona che si vuol colpire).
Quando si parla di “vittima” o “vittimologia” non si intende riferirsi solo a crimini efferati o aggressioni fisiche, ma anche alle violenze psicologiche che negli ultimi anni si stanno moltiplicando (mobbing, stalking, violenze domestiche, ecc...) e che riportano conseguenze spesso disastrose nella gestione della vita di chi si trova a subirle. Attualmente il sistema legislativo e le scienza psicologiche hanno dato maggior rilievo alle violenze psicologiche e alle loro conseguenze, ma dal punto di vista sociale è ancora presente il pensiero che si tratti di “vittime di serie B” e spesso, anche chi si trova coinvolto, fatica a percepirsi come vittima.
Il soggetto che si è trovato nel ruolo di vittima è solito vivere sentimenti contrastanti, che vanno dal senso di fallimento personale, dalla paura e dai sensi di colpa, fino al rifiuto degli altri e all’aggressività. L'obiettivo principale della vittimologia, in questo senso, è lo studio delle possibili conseguenze psicologiche e sociali subite dalla vittima di reato, allo scopo di alleviarne sofferenze e disagi.
E' chiaro che ogni episodio criminale porta con sé specifiche conseguenze sulla vittima, ma, in linea di massima, si possono evidenziare caratteristiche sintomatologiche fisiche e comportamentali comuni che si sviluppano in due fasi distinte: una fase acuta di disorganizzazione e una fase a lungo termine detta di riorganizzazione.
Fanno parte dei sintomi acuti un vertiginoso abbassamento dell'autostima, episodi depressivi, forte paura, rabbia e disturbi nelle aree fisiologiche come sonno e/o appetito. E' importante un sostegno psicologico nel passaggio dalla prima alla seconda fase e durante tutto il processo di riorganizzazione per evitare la cronicizzazione dei sintomi e permettere un'adeguata rielaborazione dell'accaduto.

mercoledì 23 febbraio 2011

PAS: Sindrome da alienazione genitoriale

La sindrome da alienazione genitoriale (o PAS, dall'acronimo di Parental Alienation Syndrome) è una vera e propria reazione psicopatologica introdotta da Richard A. Gardner nel 1985.
Egli stesso la definisce come “quella situazione in cui un genitore – detto genitore Alienatore – attiva un programma di denigrazione contro l’ altro genitore – detto genitore Alienato - utilizzando e manipolando il figlio”.
Sempre secondo Gardner insorgerebbe quasi esclusivamente nel contesto delle controversie per la custodia dei figli come una sorta di “lavaggio del cervello” che porterebbe ad una completa distruzione della relazione con il genitore alienato. Attraverso una serie di accuse ed espressioni denigratorie il genitore alienante crea una “realtà parallela” nella quale il figlio riesce ad identificarsi con la sua sofferenza fino ad introiettare sentimenti di astio, disprezzo e denigrazione nei confronti genitore alienato. E' però necessario fare un'importante precisazione: perché si possa far diagnosi di PAS non devono esistere elementi oggettivi che giustifichino i sentimenti negativi del figlio nei confronti del genitore presunto alienato.
I sintomi che Gardner individua come indicatori della possibile presenza di PAS sono primariamente otto:
  1. la campagna di denigrazione. In una situazione normale, ciascun genitore non permette che il bambino esibisca mancanza di rispetto e diffami l'altro; nella PAS, invece, il genitore alienante non mette in discussione questa mancanza di rispetto, ma può addirittura arrivare a favorirla.
  2. La razionalizzazione debole dell'astio, per cui il bambino spiega le ragioni del suo disagio nel rapporto con il genitore alienato con motivazioni illogiche, insensate o superficiali.
  3. La mancanza di ambivalenza con la quale il genitore rifiutato è descritto dal bambino come "tutto negativo", mentre l'altro genitore è visto come "tutto positivo".
  4. Il fenomeno del pensatore indipendente indica la determinazione del bambino ad affermare di pensare con la propria testa negando l'influenza del genitore alienante.
  5. l’appoggio automatico al genitore alienante è una presa di posizione del bambino sempre e solo a favore del genitore alienante, in qualunque genere di conflitto si venga a creare.
  6. l’assenza di senso di colpa significa che tutte le espressioni di disprezzo nei confronti del genitore escluso, avvengono senza sentimenti di colpa nel bambino.
  7. gli scenari presi a prestito sono affermazioni del bambino che non possono ragionevolmente venirne da lui direttamente, come l'uso di parole o situazioni normalmente non conosciute da un bambino di quell'età per descrivere le colpe del genitore escluso.
  8. l'estensione delle ostilità alla famiglia allargata del genitore rifiutato, che coinvolge nell'alienazione la famiglia, gli amici e le nuove relazioni affettive del genitore rifiutato.
Altri quattro criteri diagnostici sono stati identificati in seguito: difficoltà di transizione nel momento in cui il figlio si separa dal genitore alienante per trascorrere il periodo di visita con il genitore alienato; comportamento antagonistico o distruttivo durante le visite presso il genitore alienato; legame patologico o paranoide con il genitore alienante e legame forte e sano con il genitore alienato prima che intervenisse il processo di alienazione.
Ovviamente nel far diagnosi di PAS bisogna tener conto che l'espressione di tale sindrome si può verificare secondo diversi livelli di gravità che si identificano attraverso un'attenta analisi rispetto al comportamento messo in atto dal bambino stesso.
Sempre negli scritti di Gardner si possono rilevare tre livelli di intensità dei sintomi: grado lieve, grado moderato e grado grave. I confini fra i tre livelli di gravità non sono chiaramente definiti, ma si basano su un continuum che va dall'esistenza di una possibile, seppur controversa, relazione ad una completa condivisione delle fantasie paranoiche del genitore alienante (Disturbo Psicotico Condiviso -folie à deux) manifestata attraverso espressioni di panico e terrore fino a sfociare in un completo rifiuto di qualsiasi contatto con il genitore alienato.
L'esposizione ripetuta e sistematica ad una sindrome di alienazione genitoriale è una vera e propria violenza emotiva e come tale comporterà importanti conseguenze nella struttura psichica del bambino coinvolto che, a seconda dei livelli di gravità, potrà sviluppare gravi processi psicopatologici come alterazione dell'esame di realtà, mancanza di rispetto per l'autorità, narcisismo, indebolimento della capacità empatica e altre problematiche legate all'identità di genere.
A questo proposito è doveroso segnalare che alle ricerche di Gardner sono state mosse diverse critiche, la principale delle quali ricorda che attualmente la PAS non è inclusa nel DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) e quindi non ne risulta ufficializzata la diagnosi.
Esistono inoltre numerosi lavori ad indirizzo sia scientifico che giuridico a supporto dell'inammissibilità di tale diagnosi, in particolare l'AEN (Associazione Neuropsichiatrica Spagnola) ha pubblicato nel corso del 2010 un documento ufficiale in cui raccomanda ai suoi iscritti di non utilizzare la diagnosi di PAS poiché “ non ha alcun fondamento scientifico e presenta gravi rischi nella sua applicazione in tribunale”.
Dal punto di vista giuridico è importante in questi casi che chi conduce una perizia in separazioni giudiziali con affido, si renda conto che un genitore alienante commette una forma di violenza emozionale sul figlio con conseguenze disastrose. Indipendentemente dal riconoscimento psicopatologico della PAS, è comunque fondamentale individuare prontamente tali episodi e considerarli come un serio limite rispetto alla capacità genitoriale dandone seria considerazione al momento di valutare la decisione sulla custodia.

martedì 22 febbraio 2011

Eccoci qua...

Finalmente sono riuscita nel mio intento: un blog dove poter parlare di psicologia a 360°. Sono pronta ad ascoltare storie, commenti, idee, progetti e quant'altro...