martedì 30 giugno 2015

FEMMINICIDIO: La teoria di Kiko Arguello


Il 20 giugno scorso, dal palco del Family Day a Roma, il pittore e iniziatore del cammino neocatecumenale Kiko Arguello ha esposto la sua personale teoria sulla genesi del femminicidio facendo particolare riferimento alla vicenda di Matthias Schepp1.
La forza delle sue parole ha dato, nei giorni successivi, un'occasione di discussione profonda nutrita da incomprensioni, più o meno strumentali.
Questa la porzione di discorso contro cui il mondo (prevalentemente non cattolico) si è rivoltato:
[...]Ma se la moglie lo abbandona e se ne va con un’altra donna quest’uomo può fare una scoperta inimmaginabile, perché questa moglie gli toglie il fatto di essere amato, e quando si sperimenta il fatto di non essere amato allora questo richiama l’inferno. Quest’uomo sente una morte dentro così profonda che il primo moto è ucciderla”.
La questione, a mio parere, è piuttosto controversa. In realtà è vero in buona sostanza che i media si sono concentrati ed hanno attaccato Arguello estrapolando una frase da un discorso di oltre 10 minuti2 e questo, di per sé non è corretto e soprattutto, non sarebbe stato necessario.
Il problema è che quando si critica in maniera scorretta si perde buona parte di ragione. Titolare decine di articoli “Il femminicidio? Colpa delle mogli che non amano più i mariti”, non solo è scorretto, ma da anche modo di attaccare la modalità mettendo in ombra un discorso di tale gravità. Per questo mi chiedo se non sarebbe stato più efficace criticare per intero una teoria che, comunque, in qualunque disciplina la si faccia rientrare, fa acqua da tutte le parti.
Ma torniamo al discorso. In buona sostanza Arguello sostiene che senza la fede l'uomo non ha uno scopo nella vita e finisce per trovarlo solo nell'amore della propria moglie per cui, se lei lo lascia, egli sente negata la sua stessa esistenza e dunque uccide lei o i propri figli per farle provare lo stesso genere di dolore o “inferno” per dirlo con le parole dell'ecumenico spagnolo.
E' quindi fuori da ogni dubbio che in nessun punto del suo discorso Arguello giustifichi il femminicidio o ne attribuisca la responsabilità alla donna, ma è anche vero che la ricerca del motivo scatenante di tanta efferatezza appare, ad occhi professionisti, un po' troppo semplicistico. A ognuno il suo mestiere!
L'indagine psicologica sulle motivazioni che sottendono il fenomeno del femminicidio, non è cosa da pittori perché poi si rischia quello che è successo e cioè sollevare vespai per mancanza di competenze. E' pur vero che in una società democratica ognuno può esprimere la propria opinione, ma è buona norma avere adeguate competenze prima di salire su un palco a proclamare verità assolute.
Da un punto di vista sociologico e psicologico, in generale la causa della violenza viene attribuita alla tendenza maschile a non considerare le donne come individui indipendenti e con il diritto di autodeterminarsi, ma piuttosto come cosa propria. A maggior ragione, l’aumento esponenziale nella nostra società di casi di violenza e femminicidio viene fatto risalire ad un mutamento dell’identità femminile, che va verso l’emancipazione e la libertà, e viene quindi vissuta dagli uomini come una minaccia al proprio potere o al proprio diritto al dominio sessista.
Ogni forma di violenza nasce da una profonda fragilità e da un'umiliazione ritenuta inaccettabile che si cerca di negare picchiando. Massimo Recalcati, psicoanalista, su Repubbica scrive: “E' chiaro per lo psicoanalista che questa violenza - anche quando viene esercitata da uomini potenti - non esprime solo l' arroganza dei forti nei confronti dei deboli, ma è generata da una angoscia profonda, da un vero e proprio terrore verso ciò che non si può governare, verso quel limite insuperabile che sempre una donna rappresenta per un uomo.”3
Passando quindi ad una lettura psicoanalitica, si può riconoscere, in molti casi di violenza maschile, la vendetta nei confronti della dipendenza infantile dalla madre per l’esclusione edipica e per le ferite narcisistiche. A questo proposito, Stefano Bolognini psicoanalista, presidente di IPA (International Psychoanalytical Association), distingue due diverse tipologie di “delitto edipico”: da una parte i delitti passionali in cui l’uomo uccide il rivale, prevalentemente legati ad un livello fortemente edipico di odio contro l’equivalente paterno in una dimensione triadica; dall'altra i casi in cui l’uccisore sopprime la moglie o fidanzata dove si osserva un livello ancora più regressivo, nel quale il soggetto vive ancora in una dimensione fortemente diadica di cui non può tollerare la smentita e l’interruzione. In quest'ultimo caso il terzo quasi non c’è, se non come occasionale evidenziatore della inaffidabilità dell’oggetto di base (la madre diadica), vero ed unico oggetto di tutti i movimenti emotivi nel campo.
Bolognini continua poi affermando “La regressione massiccia, la smentita della dipendenza e il bisogno di controllare l’oggetto creano spesso forme di violenza di cui il soggetto non coglie l’aspetto infantile estremo: l’espressione della supremazia fisica anzi serve a rassicurarlo circa la propria superiorità rispetto all’oggetto dal quale è invece così dipendente”.4
Ad un certo punto Arguello sostiene che “I sociologi non sono cristiani e non conoscono l’antropologia cristiana. Il problema è che non possiamo vivere senza essere amati prima dalla nostra famiglia, poi dagli amici a scuola, poi dalla fidanzata e infine da nostra moglie”.
Sicuramente l'antropologia ecumenica e l'antropologia propriamente detta sono due scienze molto diverse tra loro, che divergono in più di un concetto, tuttavia la teoria di Arguello mi pare talmente originale da non trovare riscontro nella scienza che egli stesso invoca.
Potrebbe solo trattarsi di una controversia terminologica poiché probabilmente, quello che l'antropologia cristiana chiama mancanza di fede tale da portare all'omicidio in caso di perdita dell'amore, in psicologia si chiama più semplicemente disturbo di personalità.
A questo proposito, dobbiamo tenere in considerazione che Edwards et al (2003) hanno dimostrato la presenza di una percentuale più alta di disturbi antisociali e borderline nella popolazione dei violenti verso le donne.


1Nel 2011 Matthias Schepp, dopo un sofferto divorzio, rapisce e poi uccide le due figlie per togliersi infine la vita
2https://www.youtube.com/watch?v=f-iBJPHA78A
3Massimo Recalcati su Repubblica, 5 maggio 2012

4http://www.spiweb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=3017:uno-sguardo-psicoanalitico-alla-violenza-contro-le-donne&catid=563&Itemid=445

mercoledì 28 gennaio 2015

DALL'EMOZIONE AL SENTIMENTO


Gli uomini attribuiscono troppo peso alle emozioni, confondendole con i sentimenti. Le emozioni servono a ricordarti in ogni momento il colore dei tuoi pensieri, ma hanno una natura violenta e breve. Per questo ti lasciano sempre insoddisfatto, alimentando rimpianti e nostalgie. I sentimenti invece sono un mare profondo e stabile, che evapora solo quando diventa stagnante”. 
(Massimo Gramellini, L'ultima riga delle favole)

sabato 13 dicembre 2014

Puer Aeternus. Tradimento e perdono

Un padre, volendo insegnare al figlio ad essere meno pauroso, ad avere più coraggio, lo fa saltare dai gradini di una scala. Lo mette in piedi sul secondo gradino e gli dice: “Salta, che ti prendo”. Il bambino salta. Poi lo piazza sul terzo gradino, dicendo: “Salta, che ti prendo”. Il bambino salta. Poi lo mette sul quarto gradino, dicendo: “Salta, che ti prendo”. Il bambino ha paura ma poiché si fida del padre, fa quello che il padre gli dice e salta tra le sue braccia. Quindi il padre lo sistema sul quinto, sesto e settimo gradino dicendo ogni volta: “Salta, che ti prendo” e ogni volta il bambino salta e il padre lo afferra prontamente, continuando così per un po’. A un certo punto il bambino è su un gradino molto alto, ma salta ugualmente, come in precedenza; questa volta però il padre si tira indietro, e il bambino cade lungo disteso. Mentre tutto sanguinante e piangente si rimette in piedi, il padre gli dice: “Così impari: mai fidarti di un ebreo, neanche se è tuo padre”.


Con questo brano preso in prestito dalla tradizione ebraica, James Hillman (Puer auternus, Adelphi, Milano, 1999 ) cerca un senso profondo al tradimento come passaggio dall'infanzia all'essere uomo. Dice Hillman: “Con tutta la sua negatività, il tradimento rappresenta tuttavia un progresso rispetto alla fiducia originale, perché conduce alla “morte” del Puer attraverso l’ esperienza animica della sofferenza.”
In quest'ottica il tradimento è visto come la condizione per entrare nel mondo reale, il mondo della coscienza e delle responsabilità reali. Questo perché vivere o amare soltanto laddove ci possiamo fidare, dove siamo al sicuro e contenuti, dove non possiamo essere feriti o delusi, dove la parola data è vincolante per sempre, significa essere irraggiungibili dal dolore e dunque essere fuori dalla vita vera.
Non si dà amore senza possibilità di tradimento, così come non si dà tradimento se non all'interno di un rapporto d'amore. A tradire infatti non sono i nemici e tanto meno gli estranei, ma i padri, le madri, i figli, i fratelli, gli amanti, le mogli, i mariti, gli amici. Solo loro possono tradire, perchè su di loro un giorno abbiamo investito il nostro amore. Il tradimento appartiene all'amore come il giorno alla notte.
Secondo Hillman l’ esperienza dell tradimento è un passaggio obbligato nella conquista della maturità, un trauma necessario che contrasta l'esperienza infantile della fiducia totale, dell’ abbandono ad altri che non potranno mai farci del male, e quando questo non avviene, ci si mantiene in uno stato “puerile“ in cui non si può comprendere appieno il significato delle proprie parole e delle proprie azioni.
Il momento di quella che Hillman chiama la “grande delusione” è anche il momento della scelta, una grande opportunità. Non è tanto il tradimento in sé che porta ad una crescita, ma piuttosto la nostra reazione, la scelta che decidiamo di fare: chi è incapace di perdonare e quindi di superare il tradimento rimane fissato nel trauma ed escluso dalla possibilità di amare.
Per questo Hillman delinea in particolare cinque pericoli, modi disfunzionali di reagire alla ferita che il tradimento porta con sé:
La vendetta. E' una risposta emotiva che mira a saldare il conto ma non emancipa la coscienza perché quando è immediata non ha altro significato se non quello di scaricare una tensione, mentre quando è procrastinata restringe la coscienza in fantasie di astiosità impedendole di fare qualsiasi altra esperienza.
La negazione. Questo meccanismo si concretizza nel negare il valore dell'altro prima idealizzato.
Il cinismo. Non solo si nega il valore dell'altro, ma dell'amore stesso. Se procrastinato questo atteggiamento può condurre al nichilismo, una forma di cinismo portato all’estremo per cui si finisce per non credere più in nulla.
Il tradimento di se. E' un meccanismo che porta a considerare le nostre espressioni sincere di affetto, i bisogni affettivi e i valori emotivi più profondi come cose ridicole che si prova vergogna di aver sentito e di sentire.
La scelta paranoide. Consiste nella ricerca spasmodica di un rapporto esente dalla possibilità del tradimento. Può trattarsi di un rapporto palesemente senza amore, ma anche di un rapporto serratissimo basato su conferme continue e patti.
Il passaggio fondamentale che permette la reale crescita dell'individuo e l'ingresso nel mondo reale, è per Hillman il perdono, ma come prima condizione perché questo sia possibile, egli sostiene, è necessaria la collaborazione dell'altro, la presa di coscienza dellla valenza delle proprie azioni.
James Hillman sottolinea che “il perdono da parte del tradito, richiede l’espiazione da parte del traditore”, dove l'espiazione, viene sottolineato, non è un modo per mettersi a posto la coscienza, ma è una forma di riconoscimento dell’altro. “Se l’offesa se non è ricordata da entrambi gli interessati (e ricordata come offesa) ricade tutta su colui che è stato tradito […] Se è solo il tradito a percepire l’offesa, mentre l’altro ci passa sopra con razionalizzazioni, allora il tradimento continua, anzi si accentua”. Questa elusione in malafede di ciò che è realmente accaduto è, di tutte le piaghe, la più bruciante per il tradito. In questo caso il perdono diventa più difficile; il risentimento cresce perché il traditore non si assume la sua colpa e non prende con onestà coscienza del proprio atto. 
Jung ha detto che il senso dei nostri peccati è che dobbiamo assumerceli, ma bisogna prima riconoscerli, e riconoscere la loro brutalità.

Senza l’esperienza del tradimento, né fiducia né perdono acquisterebbero piena realtà”. Il tradimento è il lato oscuro della fiducia e del perdono, ma anche ciò che li rende possibili. 

domenica 25 maggio 2014

VALUTAZIONE DELLE CAPACITA' GENITORIALI: COSA SIGNIFICA ESSERE GENITORI COMPETENTI?

 “Anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare i rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale” (art. 155 c.c., 1° comma)

Sempre più spesso, nell'ambito della psicologia giuridica, viene richiesta al professionista che opera come CTU (Consulente Tecnico Unico), la valutazione delle competenze genitoriali. Tale richiesta può avvenire in diversi casi: adozioni, affidi, indagini a seguito di presunti reati, ipotesi di allontanamento dal nucleo familiare e, sempre più spesso, nelle cause di separazione o divorzio.

La legge n. 54/2006 ha stabilito come regola il principio della cosiddetta bigenitorialità (affido condiviso) che regolamenta le modalità di esercizio della podestà genitoriale: con la legge 50 del 2006 si stabilisce che i genitori devono esercitare la podestà sui figli in modo condiviso per cui, tutte le decisioni di maggiore interesse per i figli (istruzione, educazione,salute) devono essere prese di comune accordo tenendo conto dell'inclinazione naturale e delle ispirazioni dei figli stessi.
Tale modalità di affido è in genere la più frequente e la preferita dai Giudici, tuttavia in alcuni casi, quando la conflittualità fra i coniugi diventa ingestibile e non è possibile trovare un accordo, essi finiscono spesso per screditarsi a vicenda nel loro ruolo di genitori e richiedono l’affidamento esclusivo dei figli.
Il Giudice deve allora stabilire se e quanto ciascun coniuge sia capace di essere un “buon genitore”, per disporre l’affidamento dei figli in modo diverso da quello previsto dalla legge. Per fare questo si avvale di figure professionali quali psicologi forensi, psichiatri, neuropsichiatri infantili la cui funzione principale riguarda la valutazione delle capacità genitoriali, ossia delle capacità di entrambi i coniugi di espletare in maniera competente e soddisfacente il proprio ruolo di madre e padre.
La cosiddetta “valutazione della genitorialità” è una complessa attività di diagnosi, che deve tener conto di diversi parametri, con l'obiettivo specifico di identificare la capacità dei genitori di permettere al minore di crescere e maturare dal punto di vista fisico, cognitivo, sociale ed emozionale e la loro capacità di rispondere ai bisogni evolutivi del figlio.
Ma al di là della valutazione delle potenziali capacità genitoriali, è di estrema importanza porre molta attenzione al desiderio autentico dei figli ed al tipo di attaccamento che manifestano con entrambi i genitori. Altro concetto cardine riguarda il criterio dell'accesso, ossia la capacità di saper mantenere vivo il genitore assente e soprattutto il rispetto al diritto-dovere dell'altro a partecipare alla crescita e all'educazione dei figli. La competenza genitoriale consiste infatti, innanzitutto, nella capacità di consentire ai figli l’accesso anche all’altro genitore, per farli sentire profondamente contenuti e sostenuti da entrambi, fornendo loro il cosiddetto “porto sicuro”, cioè una base a cui poter far sempre ritorno con la certezza di essere accolti e protetti. La qualità dell’attaccamento in età evolutiva è di fondamentale importanza per la costruzione di una personalità armonica ed equilibrata e si costruisce solo se il bambino può permettersi di amare sia la madre che il padre senza temere di far “dispiacere” all’altro (“conflitto di lealtà”).
Purtroppo quest'ultimo punto è spesso quello più critico poiché quando si arriva alla valutazione delle capacità genitoriali si è di fronte a situazioni familiari altamente conflittuali in cui i coniugi, impegnati ad immedesimarsi nel ruolo di “coniuge cattivo”, dimenticano la loro intrinseca capacità ad essere buoni genitori.

In buona sostanza, quel che si chiede al perito è di valutare la qualità delle relazioni che il bambino è in grado di instaurare con ciascun genitore e quanto, ognuno di loro sia in grado di mettere da parte le delusioni e le frustrazioni personali indotte da un rapporto finito a favore di una crescita sana ed adeguata: troppo spesso la delusione di un rapporto coniugale giunto al termine ha il sopravvento sulla necessità di assicurare ai figli due genitori e spesso nemmeno il ricorso all'autorità giudiziaria riesce a placare i conflitti, poiché nelle fasi di separazione o divorzio è necessaria una netta trasformazione di tutte le relazioni e delle abitudini acquisite in una vita affinché siano salvaguardati i ruoli genitoriali anche nel dissolversi di quelli coniugali. 

venerdì 28 marzo 2014

HYSTERIA

Le fantasie che si convertono in sintomi in nessun'altra nevrosi sono evidenti come nell'isteria”. (Sigmund Freud,Introduzione alla psicoanalisi, 1915)

Questa volta voglio parlare dell'Isteria, considerata la prima psicopatologia riconosciuta e -a mio avviso- ingiustamente scomparsa (o meglio frammentata) nella moderna psichiatria.
Di isteria si iniziò a parlare già nel mondo classico e ancor prima in iscrizioni risalenti all’antico Egitto. Considerata da sempre una malattia appartenente all'universo femminile, il suo nome deriva dal greco στέρα (hystera), cioè utero.
L'isteria dei primi studi freudiani è identificata come una psiconevrosi caratterizzata da stati emozionali molto intensi e da attacchi parossistici particolarmente teatrali. Nella versione tipica ottocentesca, l'isteria si manifestava con sintomi molto simili all'epilessia: paralisi degli arti, cecità momentanea, perdita di coscienza e della capacità di parlare. Finito l'attacco, seguiva spesso una fase emozionale molto intensa, in cui il soggetto compiva azioni imprevedibili in uno stato simil-allucinatorio.
Freud individuò le cause in un trauma infantile rimosso che, grazie alla tecnica psicoanalitica poteva essere riportato alla coscienza e neutralizzato.
La personalità isterica, nella definizione più attuale, è caratterizzata da un quadro emotivo particolare in cui domina il bisogno di apparire, di vivere più intensamente, spesso con prevalenza dell’immaginazione ed atteggiamenti di tipo teatrale sfuggendo dalle situazioni spiacevoli per trovare rifugio nella malattia.
Per dirla in parole semplici si tratta di un eccesso di emozioni particolarmente intense che ad un certo punto diventano ingestibili e l'unica possibilità per non lasciarsi sopraffare è quella di riversare l'enorme quantità di energia disorganizzata in una sintomatologia, dandogli così una forma concreta.
Infatti, uno dei principali sintomi dell'isteria è, la conversione per cui, secondo Freud, le cariche emotive in eccesso venivano scaricate su un organo sano fino a renderlo inutilizzabile (emblematico il caso di Anna O.).
La conversione agisce attraverso lo spostamento, un meccanismo inconscio che consente la traslazione dell’investimento da un’entità psichica ad una somatica, come da un organo ad un altro.
Sempre secondo Freud, il sintomo acquisisce in questo modo una doppia valenza: da una parte soddisfa il bisogno primario di esprimere la tensione, dall'altra il bisogno secondario di essere notati.
In base a tutte queste considerazioni possiamo capire che l'isteria è una complessa forma psichica caratterizzata si da una chiara sintomatologia psichiatrica, ma anche da particolari modalità psicologiche.
A partire dalla terza edizione del DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, 1980), l'isteria è stata suddivisa nei tre elementi che la costituiscono:
  • L'aspetto “corporeo”: disturbo somatoforme e disturbo da conversione, che riguardano le dispercezioni corporee e la conversione di cui abbiamo parlato sopra.
  • L'aspetto “mentale”: disturbo dissociativo, con fughe isteriche, amnesie, personalità multiple.
  • La struttura caratteriologica di base: disturbo istrionico di personalità, che si caratterizza per l'emotività eccessiva, la costante ricerca di attenzioni e l'aspetto manipolativo.
Questa frammentazione della sintomatologia originaria comporta, a mio avviso, una grossa lacuna diagnostica. Non è un problema di sola natura terminologica, ma anche una complicazione dal punto di vista terapeutico. Nel concreto, se una patologia prevalentemente fisica, come ad esempio una parestesia, non da risposte significative ad indagini neurologiche, è facile supporre che si tratti di un disturbo da conversione, ma se il sintomo convertito fosse prevalentemente psicologico/psichiatrico, come ad esempio una sindrome depressiva o un disturbo della condotta alimentare, allora di certo ci si concentrerebbe nella cura del sintomo emerso, con terapie lunghe e spesso inefficaci.
Altra problematica riguarda il processo diagnostico in senso stretto: in teoria, un isterico puro, nell'accezione freudiana, dovrebbe essere inquadrato in tutte e tre le classificazioni diagnostiche sopra elencate, ma sappiamo bene che questo non è possibile per cui ci si concentrerà sulla sintomatologia più evidente e superficiale, sminuendo la particolare struttura di personalità dell'isterico e perdendo di vista la psicopatologia originaria.






mercoledì 17 luglio 2013

STERNBERG E L'AMORE PERFETTO

Mi sono imbattuta per caso in una interessante e alquanto recente teoria proposta da Robert Sternberg che riguarda l'amore, non so dire esattamente quanto possa essere realistica o completa, ma di certo la sua semplicità la rende affascinante almeno quanto basta per meritare un approfondimento ed una discussione.
Robert Sternberg (New Jersey, 8 dicembre 1949) è uno psicologo statunitense considerato uno dei maggiori studiosi dell'intelligenza e dello sviluppo cognitivo, ma dopo aver elaborato e consolidato la teoria del modello tripartitico dell'intelligenza, fra il 1986 e il 1988 ha proposto un modello trifasico anche nelle relazioni affettive
Secondo questo autore l'amore deve essere composto da tre funzioni primarie: passione, intimità ed impegno. La passione riguarda essenzialmente il dato fisico-reazionale e si identifica nell'attrazione fisica che porta l'avvicinamento di due persone, l'intimità riguarda invece la componente emotiva e si traduce in sentimenti di vicinanza, di sostegno emotivo e di condivisione. Infine l'impegno, nell'ottica di Sternberg, corrisponde alla componente cognitiva e rappresenta la volontà di costruire e mantenere in vita un rapporto duraturo.
Dall'interazione di questi tre elementi emergono 8 tipologie amorose:

  1. La prima è "l’assenza di amore": tutte e tre le componenti mancano; è la situazione della grande maggioranza delle nostre relazioni personali, casuali o funzionali.
  2. Il secondo tipo è la "simpatia". C’è solo l’intimità, ci si riferisce ai sentimenti che si provano in una autentica amicizia e comporta vicinanza o calore umano, ma non sentimenti forti di passione e di impegno.
  3. Il terzo tipo è "l’infatuazione": quando c’è solo la passione. Quell’amore a prima vista che può nascere all’istante e svanire con la stessa rapidità. Vi interviene una intensa eccitazione fisiologica, ma senza intimità o impegno.
  4. "L’amore vuoto" è il quarto tipo di relazione, dove l’impegno è privo di intimità e di passione: tutto quello che rimane è l’impegno a restare insieme.
  5. "L’amore romantico" è una combinazione di intimità e di passione. Più di una infatuazione, è vicinanza e simpatia, con l’aggiunta dell’attrazione fisica e dell’eccitazione, ma senza l’impegno.
  6. "Amore fatuo" è quello che comporta la passione e l’impegno, ma senza intimità, ma dato che l’intimità ha bisogno di tempo per svilupparsi, manca il nucleo emotivo su cui può reggersi l’impegno.
  7. "Sodalizio d’amore" è chiamato un rapporto d’intimità e impegno reciproco, ma senza passione. E’ come un’amicizia destinata a durare nel tempo.
  8. Infine quando tutti e tre gli elementi si combinano in una relazione, abbiamo quello che Sternberg chiama "amore perfetto o completo".

Il dato affascinante di questa teoria è la sua dinamicità nella combinazione dei tre elementi. E' intuitivo che mentre la passione è una componente immediata e non gestibile razionalmente, l'intimità e l'impegno hanno un decorso più lento e sono totalmente gestibili su un piano prettamente cognitivo. L'equilibrio dei tre dipende quindi da fattori in continuo mutamento e mentre è chiaro che per mantenere un rapporto “perfetto” debbano essere presente tutti, non ne si chiariscono le dosi.
Personalmente ritengo che l'abilità “dell'equilibrista” sia proprio nel capire la necessità del momento. E' come se ogni coppia possedesse un vaso che in qualsiasi momento deve essere pieno: è ovvio che nei primi tempi esso si riempirà di più passione, per poi lentamente riassestare i suoi equilibri fino ad un prevalere di intimità ed impegno.
Tutto si svolge in un continuo divenire pertanto, quello che Sternberg identifica come “amore perfetto”, in realtà può durare anche solo pochi istanti ed è inevitabile a questo punto chiedersi se e come sia possibile fare in modo che l'equilibrio si mantenga perfetto mutando continuamente gli elementi che lo compongono.

Potrebbe essere rivelatore colorare il lati del triangolo con i colori corrispondenti per capire a che punto si trova il nostro rapporto e quanto è distante dall'ideale di perfezione sternberghiano.  


mercoledì 29 agosto 2012

LA GELOSIA


Da un punto di vista etimologico, il termine gelosia proviene dal latino “zelus” e significa zelo, cura scrupolosa. Il sentimento di gelosia può essere considerato naturale e normale quando è consapevole ed esprime la comprensibile vulnerabilità che ognuno ha, quando ama, all’idea di poter perdere la persona amata.
Quando la gelosia arriva in un rapporto può fare il suo lavoro buono: mette in crisi gli amanti, spezza l'illusione dell'eternità e della fiducia illimitata, costringe a ridare le carte in nuovo incontro e in un nuovo riconoscimento dell'altro e della relazione, purché rimanga nei canoni di una funzionalità costruttiva.
Non esiste in realtà una unità di misura che possa dirci se la gelosia che proviamo sia normale, l'unica discriminante che possiamo identificare è l'influenza che essa esercita sulla nostra vita: nel momento in cui diventa un pensiero continuo ed è in grado di imporci cambiamenti nelle abitudini di vita come una costante in ogni relazione, essa diventa patologica.

Uno dei primi studiosi della gelosia è stato Freud che ha individuato tre diverse tipologie di gelosia (1922, Alcuni meccanismi nevrotici nella gelosia, paranoia e omosessualità):
1) Gelosia competitiva o normale: comporta una parte di lutto causata dal vissuto reale o immaginario di aver perduto la persona amata, sentimenti ostili verso il rivale e un atteggiamento autocritico volto ad attribuire a sé stessi la responsabilità della perdita affettiva.
2) Gelosia proiettata: deriva dalla propria infedeltà concreta o da impulsi in tal senso che soffrirono la rimozione. In altre parole chi prova più o meno inconsciamente tentazioni di tradimento le proietta sul partner convinto che l'altro non sia stato in grado di resistere.
3) Gelosia delirante: per Freud è la conseguenza di una forma di omosessualità latente che preme per manifestarsi. Come tentativo di difesa contro un impulso omosessuale troppo forte essa può essere descritta mediante la formula: “Non sono io che lo desidero, ma Lei”.

Nella nosografia psichiatrica esiste tuttavia una classificazione della gelosia delirante che esula dal concetto freudiano di omosessualità. Nel DSM IV (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), il delirio di gelosia è considerato uno dei sottotipi del Disturbo Delirante e si applica quando il tema centrale del delirio è la convinzione che il proprio partner sia infedele; convinzione che non si basa su un motivo accertato, ma su deduzioni non corrette, supportate da piccoli indizi interpretati come prove evidenti, allo scopo di giustificare il delirio. Di solito, il soggetto con il delirio di gelosia è costantemente alla ricerca di prove ed indizi a dimostrazione del tradimento, ma anche qualora queste non diventassero realtà oggettive, l'intervento del delirio può portare a casi estremi come l'attacco fisico e il cosiddetto “delitto passionale”, di cui la gelosia sembra essere la causa più frequente.

Come non esiste una netta linea di confine capace di isolare la gelosia patologica, non esiste a tutt'oggi una teoria universalmente accettata capace di spiegarne l'origine.
Secondo Freud è normale essere gelosi. Questa emozione ha le sue radici nell'infanzia quando i bambini provano il bisogno di essere amati e di essere l'unico oggetto d'amore dei genitori; così nasce la gelosia nei confronti di fratelli e sorelle e poi la gelosia edipica nei confronti del genitore dello stesso sesso. Sempre secondo le teorie freudiane, dal modo in cui questi primi moti verranno gestiti dipenderà poi la capacità adulta di manifestare una sana ed equilibrata gelosia.
Attualmente le teorie psicologiche al riguardo hanno intrapreso diverse strade azzardando spiegazioni più semplici che vanno dalla mancanza di fiducia in sé stessi alla paura di perdere la propria identità. Quest'ultima, a mio avviso interessante teoria, ritiene possa trattarsi di una sorta di “angoscia di fusione” dove il geloso ha paura di perdere la propria identità nella coppia e cerca dunque una terza persona per rassicurarsi; in quest'ottica la gelosia gli permette di conservare la propria autonomia e di esistere come individuo indipendente.
Il paradosso, che in qualche modo conferma questa teoria, è dato dall'evidenza che numerosi gelosi scelgono, più o meno inconsciamente, partner capaci di esasperare tale sentimento.

Un discorso a parte merita la gelosia retroattiva altrimenti detta “Sindrome di Rebecca”. Che deve il suo nome ad un famoso film di Alfred Hitchcock1 e si rivolge al passato sentimentale del proprio partner.
Anche in questo caso vale lo stesso discorso fatto per la gelosia: ci sono spesso condizioni oggettive che rendono il sentimento normale, la questione si complica quando la leggera sofferenza provocata dal confronto con l'altra/altro diventa una vera e propria ossessione tale da rendere impossibile la prosecuzione del rapporto. La gelosia retroattiva rivela spesso un senso di inadeguatezza e di bassa autostima in chi la prova, immaginando continui confronti con gli “ex” del partner e soffrendo come se queste immagini fossero reali.
Tuttavia, in condizioni normali, può anche capitare che l'esperienza precedente porti con sé elementi non adeguatamente superati od elaborati per cui, più o meno inconsciamente, l'immagine dell'ex resta presente nella quotidianità diventando un fantasma che fa ombra alla coppia, mettendo in atto una sorta di rapporto a tre che inevitabilmente logora ogni tipo di relazione.
Per questa ragione è fondamentale, nella costruzione di ogni nuovo rapporto, mettere in comune il proprio passato sentimentale: un passaggio obbligato per affrontare un percorso comune che metta al centro la nuova coppia.

1Rebecca, la prima moglie (1940)